A tu per tu con Remco Campert

microfono

 
 
 

  1. La tua infanzia è stata caratterizzata dall’assenza di una figura paterna. Come hai vissuto e come vivi tutt’ora questa mancanza? Tuo padre è stato fonte d’ispirazione per il tuo lavoro?
  2. Sognavi fin da ragazzino di fare lo scrittore?
  3. A partire dal 1950 hai iniziato ad andare spesso a Parigi. Tutti i giorni baldoria, vero?
  4. Che sensazioni provi quando pensi al periodo dei Cinquantisti?
  5. Il jazz ha avuto un ruolo molto importante nella tua vita, non è così?
  6. “La vita è deeeliziosa”. Hai scritto questa frase 50 anni fa.
  7. Qual è il tuo rapporto con la scrittura?
  8. Raccontaci la tua esperienza nel mondo del teatro.

 
 
 
 
 
 
1.
 
Innanzi tutto quello che significa scrivere l’ho imparato da mio nonno, non da mio padre. Mio nonno materno scriveva dei romanzi a puntate e dei testi di teatro. Quando avevo cinque anni venivo spesso “parcheggiato” a casa sua. “Solo se fai silenzio” diceva, perché voleva lavorare in pace, con il sigaro che si consumava, e io pensavo: “ma cosa sta facendo il nonno?”. Ai tempi non capivo che era uno scrittore.
Comunque i miei si separarono quando avevo quasi tre anni. Mia mamma non parlava mai delle famiglia Campert. A dire il vero non parlava nemmeno di mio padre, a parte quando mi diceva che era un uomo “affascinante”. E se provavo a chiederle di più, lei si chiudeva in se stessa, e quindi lasciavo perdere. Col passare del tempo decisi anch’io di dimenticare l’uomo dal quale avevo preso il cognome, l’uomo che mi aveva messo al mondo, l’uomo che anche quando ne aveva avuto la possibilità, non mi aveva dato molte attenzioni.
Nell’inverno del 1943 venni a sapere della morte di mio padre avvenuta nel campo di concentramento di Neuengamme. Da quel momento la sua poesia “De Achttien Dooden” (i diciotto morti) divenne per molti quasi un secondo inno nazionale. La morte di mio padre non mi ha mai toccato più di tanto e tutte quelle lettere che ricevevo sul suo conto quasi mi spaventavano.
Ricordo che in un programma televisivo di Martin Simek mi venne chiesto di leggere la famosa poesia di mio padre. Tornando a casa pensai: devo fare qualcosa. Non posso continuare a fingere di non avere niente a che fare con lui, e lui con me. Devo avvicinarmi a lui. Per questo iniziai a raccogliere tutto il materiale possibile e grazie all’aiuto di amici e parenti, cercai di delineare il ritratto di mio padre, pubblicandolo nel libro “Familie-Album” (album di famiglia) in capitolo dedicato interamente a lui. E in un certo senso così facendo è come se l’avessi incontrato. L’ho toccato di sfuggita, ho capito che uomo era, mi si è avvicinato un po’, mi è diventato meno oscuro. È una cosa molto personale, scritta sulla la mia pelle.
 

 

 

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2.
 
Quando ero piccolo mi ponevano spesso la fatidica domanda “come ti vedi da grande?”. Io non lo sapevo. “Vecchio”, sarebbe stata la risposta corretta, ma sapevo bene che avrei dovuto rispondere una cosa del tipo “capitano” o “pompiere”, o “dottore” se volevo fingere di essere un santerello. Ma a quei tempi non mi veniva in mente niente per cavarmi da quell’impiccio, quindi un semplice “boh!” era la risposta più facile da dare. Ma c’erano adulti che non si arrendevano e iniziavano a trovare personalmente delle soluzioni per il mio futuro. E dato che è ovvio che il figlio di un dottore diventi dottore e il figlio di un notaio diventi notaio, loro davano per scontato che io diventassi scrittore. “Come tuo padre e tuo nonno”, dicevano. Io arrossivo e annuivo impaziente, in attesa che il loro interesse per me e per la mia vita svanisse. Il che accadeva piuttosto velocemente. E quindi ad un tratto davano un’occhiata al loro orologio e di colpo si reimmergevano nel mondo degli adulti, sempre pieno di cose incomprensibili. Io vivevi qui, e loro vivevano lì, e mai mi sarei immaginato che un giorno avrei fatto parte anch’io di quel mondo. Comunque mio padre e mio nonno erano in effetti scrittori. Ma io non avevo la più pallida idea di cosa significasse quella parola. Si, ogni tanto scrivevano, ma anch’io scrivevo, quando facevo i compiti per esempio, ma non per questo mi definivo uno scrittore. O forse erano le cartoline che dovevo trascrivere tutto sudato d’estate che mi rendevano uno scrittore?
 

 

 

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3.
 
Ancora oggi in certi momenti mi prende come una voglia di ritornare all’hotel Terminus, sedermi e mettermi a scrivere. Parigi era per noi una liberazione. I Cinquantisti cercavano il contatto con il surrealismo e il dadaismo prebellico, forme artistiche che non erano giunte fin qui, al contrario di Parigi, dove alcune persone rappresentanti di quei movimenti erano ancora vive, potevi vedere dove avevano vissuto e i giornali li ricordavano nei loro articoli..
Comunque si, ci divertivamo moltissimo. Ci andavamo con degli amici scrittori e pittori. Simon Vinkenoog era già lì. Potevamo alloggiare da lui, non c’erano problemi. Era sempre una gran festa. La città era sempre in fermento, spuntavano nuove gemme in ogni momento. Gli stranieri interagivano tra di loro intensamente perché i francesi erano un gruppo impenetrabile. Associo Parigi a un bel momento della mia vita, alla vitalità e alla scrittura. Lì mi sentivo per la prima volta un poeta.
 

 

 

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4.
 
Quello è il periodo in cui mi sono veramente formato. Era più di un gruppo di amici, era come una famiglia per me, qualcosa che mi è sempre mancato. Ho scoperto su tutti i fronti cosa significa vivere. Arrivò tutto contemporaneamente: i primi innamoramenti, la scrittura. Quando ripenso a quei tempi mi emoziono.
 

 

 

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5.
 
Già ai tempi del liceo ero ormai diventato un frequentatore assiduo del jazzclub Sheherazade ad Amsterdam, dove si esibivano artisti come Ria Joy, Toon van Vliet e Nedley Elstack. Il jazz era il genere di musica che faceva per me. Non ho mai sentito il bisogno di suonare uno strumento, ero più un fan. Era più che altro l’ambiente del jazz che mi attirava, quel sensazione di proibito. Quindi di certo ha avuto un ruolo importante nella mia vita e sono addirittura riuscito a convincere altre persone della sua importanza. O dovevano per forza convincersene: hanno ascoltato i miei dischi fino alla nausea. Li ho convertiti, diciamo. Avevo addirittura i primi dischi bebop, che venivano direttamente da New York, come Things to come per esempio.
 

 

 

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6.
 
E la vita è rimasta tale, con tutti i suoi alti e bassi. Nel 1960 io e il mio amico Jan Vrijman eravamo entrambi appena usciti da un divorzio. Jan era un ragazzo intelligente, leggeva per esempio il quotidiano De Telegraaf, dove un giorno vide un annuncio di una casa nel Vondelpark, ad Amsterdam. E ad un tratto ci ritrovammo lì, ed io pensai: stiamo passando un periodo fantastico insieme, liberi da tutto, dai doveri e dalle responsabilità…e in quel momento mi venne in mente: la vita è deliziosa.
E quindi me lo appuntai: scrissi de-li-zio-sa, ma non coincideva proprio con il mio stato d’animo. Deeeliziosa, ecco cos’era, un sentimento più profondo. Me l’ero scritto, lo dico davvero, e pensai: ora però deve dirlo qualcuno. E mi venne in mente il nome Panda. Non so perché, forse avevo letto qualcosa su un orso da qualche parte. Quindi scrissi: “La vita è deeeliziosa” disse Panda. Punto. Ora però la storia deve andare avanti, pensai. E così nacque il libro, in tre o quattro settimane, in una sorta di piacevole ebrezza.
Scrissi questa frase a mano e pensai: ora voglio vederla stampata. In quel momento mi travolse la sensazione che sarebbe diventato un best-seller. E infatti ebbe subito successo. Prima scrivevo racconti, articoli e poesie, e traducevo di tutto: una continua lotta per guadagnare fino all’ultimo centesimo. Ma all’improvviso non dovevo più fare nulla di tutto ciò. L’ennesima grande liberazione.
 

 

 

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7.
 
Scrivo esclusivamente perché amo farlo. Penso che una persona possa avere diverse storie d’amore nel corso della vita, ma l’amore della scrittura è per me un amore duraturo. Scrivere per me è come respirare: è una necessità di vita. Non riesco ad immaginare di poter perderla. Se consideri la scrittura come una carriera, allora un giorno penserai: ormai sono vecchio, ho fatto quello che dovevo fare, ora è il momento di cambiare. Ma io non smetterò mai di scrivere. Perché se voglio continuare a vivere, e lo voglio, allora devo scrivere.
 

 

 

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8.
 
Il teatro mi ha dato coraggio. Prima avevo persino paura di guardarmi attorno, temevo quasi che gli altri potessero vedermi. Ma ad un certo punto pensai: non posso vivere così. Avevo bisogno di contatto. Quindi mi recai nell’ufficio di un teatro e da lì iniziò tutto. Il successo mi ha diede una soddisfazione incredibile. Non avevo più le mani che tremavano e non pensavo nemmeno a come la gente potesse vedermi e cosa potesse pensare di me. Avevo una sicurezza del tutta nuova, che era dentro di me ma non l’avevo mai conosciuta. E di colpo eccola: raggiante, visibile. Non so bene come e cosa sia successo dentro di me. Ero sempre così timoroso, diffidente. Ma ora la mia ansia è completamente svanita. Finalmente ho il coraggio di guardare le persone negli occhi.
 

 

 

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