COMMENTO ALLA LETTURA – L’INQUISITORE DI GIAVA ?

Il romanzo di Alfred Birney L’inquisitore di Giava (De Tolk van Java) pubblicato dalla casa editrice Mondadori, racconta le memorie di Arto, del figlio Alan e della moglie “la cicciona”. Alan vive tormentato dagli orrori che il padre racconta di aver vissuto durante la guerra per l’indipendenza indonesiana. È un padre violento, in fuga da un passato che lo perseguita, un passato che decide di raccontare. Alan non sa che dietro quel continuo battere a macchina del padre vi è il suo vissuto. Ogni pagina è dettata dalla violenza, in un arco temporale senza fine. 

Istantanee della famiglia Birney, comprese quelle del padre Adolf nelle ex Indie Orientali Olandesi. Nella foto di famiglia, Alfred è il ragazzo a sinistra. Collezione personale di Alfred Birney, per gentile concessione della casa editrice De Geus.

Istantanee della famiglia Birney, comprese quelle del padre Adolf nelle ex Indie Orientali Olandesi. Nella foto di famiglia, Alfred è il ragazzo a sinistra. Collezione personale di Alfred Birney, per gentile concessione della casa editrice De Geus.

 

COMMENTO ALLA LETTURA

Indya Iaconis

Il romanzo di Alfred Birney è crudo, lento, carico di dettagli e ricordi. Dalle primissime pagine sono stata catapultata nelle memorie di Alan Noland, memorie che si intrecciano a quelle di suo padre Arto e di sua madre “la cicciona”. Fin da subito trapela che la guerra è e sarà presente in ogni pagina del romanzo, ma non solo una guerra fatta di bombardamenti, massacri e soldati, anche una guerra famigliare, una di quelle che ti segue anche nei luoghi più remoti della terra, negli incubi quando la notte cala e l’oscurità rivela i tuoi spettri: si tratta della propria storia.

20210204_095557Il romanzo inizia con le memorie di Alan, un uomo che attraverso i suoi monologhi rivolti al padre Arto, rivela le atrocità commesse da quest’ultimo, atti che, andando avanti nella lettura, prenderanno poco alla volta vita attraverso le parole di Arto. 

Non si ha un’introduzione classica, no. Per me è stato come entrare in una stanza nel bel mezzo di una discussione, l’aria carica di tensione e animi in fermento. All’inizio non è facile capire cosa sta accadendo, si ha solo la sensazione che la situazione non può che peggiorare. Sarebbe forse il caso di lasciare la stanza e chiudere la porta e lasciare che quella discussione famigliare rimanga privata. Ma poi la curiosità prende il sopravvento e allora si decide di restare e di ascoltare cosa hanno da dire. La storia si dice sia scritta dai vincitori, ma se leggessimo anche l’altra parte, quella non ufficiale, quella che si può sapere solo attraverso le memorie di chi, quelle atrocità vissute, le ha potute raccontare a chi aveva voglia di ascoltare, scopriremmo una seconda guerra.  Il trascorrere del tempo in una crudele staticità e ripetitività  di azioni, di un destino già segnato, prima ancora di emettere il primo vagito. 

“Non importa, non abbiamo il controllo sul tipo di persona che siamo quando veniamo al mondo e sulla strada che seguiremo nella vita.”  (pag.457-L’inquisitore di Giava)

Il battere a macchina di Arto, segna il tempo delle sue memorie, le materializza su pagine e pagine e pagine, e ripercorre avanti e indietro quello che il destino ha avuto in serbo per lui.

“Sono nato il 28 settembre 1925 verso le tre del pomeriggio, per poi crescere nel lato oscuro della società delle Indie. Molto si è scritto sulla florida società delle ex Indie olandesi, soprattutto sui vecchi tempi in cui la si passava bene, il cosiddetto tempo doeloe, i tempi di una volta. Ma quei “bei vecchi tempi” io non li ho conosciuti e la storia che vi è associata e di cui agli olandesi piace tanto leggere è una menzogna” (pag.75)

Figlio illegittimo di un padre Indo-europeo che non lo ha mai voluto riconoscere, una famiglia in cui le botte sono la prassi e talvolta date senza un vero motivo, ad otto anni intravede la morte che appare per lui l’unica che possa liberarlo da quelle continue violenze psicologiche e fisiche, a dieci anni i fratelli lo addestrano a sopportare il dolore per “diventare più forte”, alla fine della scuola primaria gli viene insegnato a sparare. La sua vita è segnata da continua violenza.

A Blitar ci attendevano zia Mien e altri parenti di mamma. Venni abbracciato affettuosamente da tutte quelle donne cinesi e non ci capivo niente. Ero abituato alle botte, ai duri allenamenti nel giardino, alle liti con i miei fratelli e sorelle”. (pag.103)

Di fronte a questa continua ferocia, mi sono chiesta in cosa Arto trovi la forza di combattere e la risposta è arrivata nel corso della lettura; l’Olanda e la monarchia d’Orange sono per lui un elemento in cui identificarsi, riversa la sua rabbia, la sua sofferenza in un obiettivo da raggiungere: combattere contro coloro a favore della guerra d’Indipendenza indonesiana (1945 -1949). Uccidere un ratto, un pipistrello o un uomo non fa differenza, quando si parla di sopravvivenza bisogna combattere, costi quel che costi. Ma la verità è che la guerra non lo ha mai lasciato nemmeno dopo che l’Olanda ammaina le sue vele per vedere issare quelle di una nuova nazione con a capo Sukarno, quella Indonesiana. Se la porta con sé in Olanda, dove mette su famiglia e semina terrore e odio tra i suoi figli e sua moglie che disprezza la sua prole e tutto ciò che riguarda le ex Indie olandesi. Alan nelle sue memorie parla di un padre violento, tormentato dai suoi fantasmi, sempre all’erta e incapace di lasciarsi alle spalle quel pesante passato di orrori e violenze. Arto dormiva sempre con un pugnale vicino al letto perché temeva che i suoi nemici fossero in agguato pronti a saltargli addosso e farlo fuori. I suoi incubi sono così tangibili e vividi che si introducono anche nei sogni dei suoi figli, come nel caso di Alan. I fantasmi del padre diventano i fantasmi del figlio. 

“Il pugnale si trovava sempre a portata di mano accanto al suo letto. A volte vedevo apparire la sagoma di quell’arma assassina in mano a de Arend (Arto) sulla parete della mia stanza, alla luce di una squallida lampadina che proveniva dal corridoio. Allora mi rannicchiavo tutto e gridavo dal letto chi ero, perché non mi scambiasse per un suo vecchio nemico” 

Vittima e carnefice si confondono e tutto ciò che appare è l’inesorabile ripetersi delle vite dei padri e dei figli, la maledizione che non lascia scampo ai membri della famiglia. Alan lotta per tutta la sua vita contro una guerra che non gli appartiene, che non ha combattuto ma in cui si ritrova, costretto a sentire notte dopo notte dopo notte le storie del padre, a subire giorno dopo giorno dopo giorno gli abusi e  a doversi difendere non solo dal padre ma anche dagli incubi del padre che ora fanno parte di lui.

“Avevo seguito le orme di mio padre, ma senza accorgermene”. (pag.457)

Alla morte del padre gli incubi se ne vanno con lui, ma ormai l’ombra del passato incombe su Alan e non può far altro che arrendersi.

“A lungo ho lottato come un pazzo contro la sua follia. Ora sono un ponte esausto, che sta sospeso sopra un passato e non scorge la propria immagine riflessa nell’acqua. Non lotto più, mi fermo qui.” (pag.458)

Quando concludo il romanzo di Birney, sento in parte quella pesantezza. Le memorie si Arto, Alan e “la cicciona” sono qualcosa di nuovo, lasciano il segno su coloro che hanno deciso di intraprendere la lettura.

 

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