I nostri ragazzi a Giava – intervista ai veterani olandesi della Guerra d’indipendenza indonesiana

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Nel documentario Onze jongens op Java (I nostri ragazzi a Giava), il giornalista e storico olandese Coen Verbraak intervista alcuni veterani della guerra d’indipendenza indonesiana. I loro volti e le loro voci si alternano alle immagini di repertorio. Oggi hanno quasi novant’anni ma quando sono partiti per la guerra c’era chi ancora non ne aveva compiuti diciotto. Molti non erano mai usciti dal loro paese e delle Indie avevano visto solo le stampe delle tigri sui libri di scuola.

Nelle quattro puntate del documentario, Verbraak ripercorre con i veterani tutte le fasi della loro esperienza. I motivi che li spinsero a partire per l’Indonesia, l’addestramento insufficiente e le attrezzature inadeguate che gli furono fornite. Basti dire che le uniformi che indossavano erano quelle dei soldati inglesi, poiché, in un’Olanda appena uscita dal tragico periodo dell’occupazione tedesca, questo era il meglio che era stato possibile rimediare per armare i soldati. E ancora il viaggio verso le Indie e le prime impressioni all’arrivo, il clima, il cibo, gli odori. La guerriglia e la paura che in qualsiasi momento potesse accadere qualcosa, poichè, come raccontano gli intervistati, i nemici molto spesso non indossavano un’uniforme ed era molto difficile individuarli. Le fidanzate lasciate in Olanda, quelle trovate in Indonesia. Le lettere inviate alla famiglia in cui si raccontava che in guerra andava sempre tutto bene. Le prostitute e le ispezioni per scongiurare le MST. Il cameratismo unico che nasceva tra i soldati.

Le domande dell’intervistatore sono dirette, talvolta taglienti, eppure mai sentenziose. “Capiva perché gli indonesiani combattevano? Ha visto con i suoi occhi dei crimini di guerra? Ha visto morire i suoi compagni? Ci sono stati momenti in cui ha pensato che non sarebbe tornato? Ha dovuto uccidere?”

Le risposte sono sorprendentemente varie, come vari sono i vissuti, i punti di vista, l’indole degli uomini che raccontano. Nel loro essere ricche di sfaccettature, le circostanze estreme della guerra non sembrano diverse dal resto delle cose della vita. D’altra parte però, i sentimenti e le immagini impresse nella memoria di chi ha vissuto la guerra sono inimmaginabili per chi non c’era. La frazione di secondo in cui dover decidere se essere uccisi o uccidere. La rabbia e la sete di vendetta che si prova a veder morire i propri compagni. Il valore di una Lucky Strike, quando a chiedertela è un amico per cui quello sarà l’ultimo tiro.

E infine il ritorno a casa, carico di gioia ma anche di dispiacere, perché l’Indonesia in quei quattro anni era entrata nel cuore di quei ragazzi olandesi. L’accoglienza della famiglia e quella misera dello stato: trecento fiorini, un buono acquisto per un paio di scarpe e viaggi in treno gratis per un mese in tutto il paese. In terza classe. Il disturbo post-traumatico da stress. La fatica di ritornare alla normalità e ricominciare tutto da capo uniti al disinteresse generale per il vissuto di chi tornava da una guerra persa, considerata una pagina nera della storia da cancellare al più presto.

Chi più chi meno, tutti quei ragazzi che settant’anni fa partirono per riconquistare l’Indonesia, per liberarla dai giapponesi “come altri avevano liberato noi” o per puro spirito d’avventura, oggi riconoscono che l’anelito di libertà degli indonesiani non era diverso da quello che solo pochi anni prima aveva animato gli olandesi durante l’occupazione tedesca. Che anche se allora li vedevano come nemici, in fondo “avevano ragione loro”. Tutti i veterani sono d’accordo. L’olanda non avrebbe mai dovuto combattere quella guerra sbagliata, che è costata la vita a 100mila indonesiani e 6mila soldati olandesi.

La genesi del conflitto in 150 parole

1945. I giapponesi dichiarano la propria resa mettendo così fine alla Seconda guerra mondiale. Sono anche costretti ad abbandonare l’Indonesia, dopo quasi tre anni e mezzo di occupazione militare. Dall’altra parte del globo gli antichi colonizzatori olandesi tirano un sospiro di sollievo. La guerra è finita: in patria l’oppressore tedesco è stato scacciato ed è ora il momento di riprendere anche il controllo delle Indie.

Gli indonesiani però la pensano diversamente. I leader Sukarno e Hatta non perdono tempo e il 17 agosto, appena due giorni dopo la resa nipponica, dichiarano l’indipendenza del paese. L’Aia non ha intenzione di rinunciare a una colonia che le appartiene da quattro secoli e dà avvio a quelle che definisce “azioni di polizia”. La realtà dei fatti è che si scatena una vera e propria guerra. Tra coscritti, volontari e soldati dell’esercito reale delle Indie Olandesi, saranno circa 120 mila gli uomini inviati a combattere in Indonesia.

Un assaggio del documentario

Jan Bruijn

Dovevamo perlustrare un kampong (villaggio) un po’ malfamato. Ho aperto la porta di una casa e davanti a me c’era un nemico che impugnava un fucile. Ha premuto il grilletto ma il colpo non è partito. Ho avuto subito la sensazione che non dovevamo ucciderlo. Io ho avuto fortuna, non dobbiamo uccidere neanche lui. Ho detto ai ragazzi: “Non uccidetelo, fatelo prigioniero”. E mesi dopo… Vicino a Malang c’era una grande prigione, Lowokwaroe, dove c’erano molti prigionieri di guerra e ogni mese c’era un diverso plotone di guardia. Quando fu il nostro turno e facevo la ronda con un paio di ragazzi mi è venuto incontro un prigioniero. Era lui. Ha detto in malese: “Grazie mille di avermi risparmiato”. E’ stata una bella sensazione. Ha detto: “Sergente, vuole fare una partita a ping pong?” Ho pensato, perchè no? E giocava molto meglio di me.

Goos Blok

GB: Era così che si svolgevano gli interrogatori

CV: Questa si chiama tortura

GB: Non posso darle torto

CV: Intende anche dire che nei servizi segreti le hanno insegnato a torturare?

GB: Non lo si impara, lo si fa

CV: Anche lei lo faceva?

GB: Sì

[…]

GB: Chi non faceva i nomi veniva colpito. E se ancora non parlava gli facevamo toccare l’elettrodo di un telefono da campo e facevamo scorrere la corrente. Il che provoca una sensazione sgradevole, per usare un eufemismo

CV: Una scossa potentissima?

GB: Temo di sì. Non l’ho mai provato sulla mia pelle, ma di certo dà la scossa

CV: Lo ha fatto anche lei?

GB: Sì, l’ho fatto

CV: Come si sentiva a farlo?

GB: Non ci pensi mentre lo fai. Assurdo no? È incredibile. Dopo aver vissuto tu stesso cinque anni di occupazione tedesca sei così egoista. O meglio, così stupido. È così stupido. Non rifletti su quello che fai. Non vedi il tuo prossimo come un essere umano. È terribile.

[…]

GB: Mi vergogno ancora. Avrei dovuto assumermi le mie responsabilità. E non ne sono stato capace.

[…]

Mi vergogno di essermi lasciato usare come pedina sulla scacchiera del potere. Mi dispiace di non aver saputo dire: “In Indonesia non ci vado”.

Pieter Paulusma

Ho incontrato un nemico, quando sono tornato con mia moglie a visitare l’Indonesia. Mia moglie è andata al pasar (mercato) e mentre eravamo diretti lì ci siamo fermati a un warong, una specie di tavola calda sulla strada. C’erano due uomini e ho spiegato loro che ero un belanda, un olandese, e che durante la guerra ero stato lì. “È stato qui?” “Sì, anche lei? Faceva parte della divisione Diponegoro?”, ho risposto. “Sì signore”. Gli ho detto: “Allora eravamo nemici” “Sì, certo” “E ora?” “Ora non più”, mi ha risposto. E ha fatto un gesto che si usa solo in quelle terre: gli ho dato la mano e lui l’ha presa con due mani  e ha detto “Non lo siamo più, signore”. Non eravamo più nemici. È stato bellissimo. Non c’è più nessun rancore.

Documentario “Onze jongens op Java” (disponibile solo in lingua olandese): https://www.npostart.nl/onze-jongens-op-java/05-12-2019/BV_101395136

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