Intervista a Alfred Birney ?

“VUOI SAPERE CHE COS’È LA GUERRA? BEH, ALLORA LEGGI”.

Alfred Birney (1951) vuole saltare di gioia sulla spiaggia di Scheveningen (l’Aia) quando gli viene annunciato di aver vinto il premio letterario LIBRIS per il suo romanzo L’inquisitore di Giava (De tolk van Java, 2016). Ma ora non ha tempo, “Domani!” dice Birney con un sorriso, “Ho dormito appena un paio d’ore”. Da giovedì in poi è stato già pianificato tutto per interviste, firmacopie e incontri alla radio e nelle librerie.

Birney dovrà regolare il suo orologio biologico, dal momento che è abituato a scrivere di notte e ad addormentarsi quando sorge il sole. La violenta educazione impartitagli lo ha reso timoroso della notte. Fino a ora. Birney ha dovuto caricarsi sulle spalle il peso della guerra vissuta dal padre. “O ne rimani schiacciato, o cerchi di trarne qualcosa di buono. Se mio padre potesse vedermi adesso, penso che sarebbe orgoglioso di me”. Finalmente non subisce più la paura nei confronti di suo padre.

 

Alfred Birney, foto Patrick Post

Alfred Birney, foto Patrick Post

 

Dal 1987 Alfred Birney scrive romanzi, novelle, raccolte di saggi e raccolte di racconti.  Se scriveva un romanzo indiano ci si chiedeva perché si limitasse a questo, se scriveva un romanzo d’amore ci si domandava perché non scrivesse delle Indie orientali olandesi.

Aveva già rinunciato alla speranza di una svolta nel pubblico dei lettori, e con il suo ottavo romanzo di grande successo L’interprete di Giava (De tolk van Java) ha fatto il giro degli editori prima che la casa editrice De Geus gli desse una possibilità.

“Hanno pensato: bravo scrittore, ma non da vendere” dice Birney ridendo. Non si preoccupava affatto di avere un riconoscimento della sua abilità di scrivere. Non gli importava più. “Sapevo che sarebbe stato il mio libro più importante, ma la fama non mi interessava più”.

Birney spiega come questo atteggiamento abbia giocato un ruolo importante nella stesura del libro. “Ho abbandonato tutte le convenzioni letterarie”. Si è preso la completa libertà di scrivere quello che voleva e come voleva, incluso ciò che chiama “Rambo-motief”, la terribile violenza nella vita di suo padre. “Vuoi sapere cos’è la guerra? Beh, leggilo. Qual è il risultato? Ragazzi giovani feriti, traumatizzati. E cosa pensi che facciano ai loro figli?”.

Il padre Adolf Birney (1925) ha scritto le sue memorie. “Ricordo il rumore della macchina da scrivere, tutte le sere. Mia madre pensava che stesse studiando per diventare ingegnere” dice Alfred. La violenza domestica era così forte che la madre di Alfred, originaria del Brabante, ha chiesto il divorzio dal marito indo-olandese e portato i suoi cinque figli in collegio. Alfred, il figlio maggiore, è andato alla ricerca del manoscritto del padre. La madre sosteneva che il padre avesse lasciato che il figlio minore si appropriasse indebitamente del manoscritto in cambio di una nuova chitarra; mentre il padre sosteneva che la madre lo avesse bruciato. “Siccome mi lamentavo così tanto” dice ora Birney, il padre lo ha riscritto. Ha poi vissuto in Spagna per 15 anni dove è morto, consumato dal rancore, il giorno del suo ottantesimo compleanno.

Birney ha completamente riadattato il manoscritto e vi ha inserito delle storie, come il famoso spekkoek indonesiano, una torta composta da diversi strati. Ha esaminato tutto: i  libri, gli  archivi, le  mappe e ha visitato Giava Est in Indonesia, dove sono ambientate le storie. Ha conosciuto sua zia Ina in una baraccopoli lungo la ferrovia e sua zia Ella che, dopo il bombardamento atomico di Hiroshima, ha trascorso due anni in un ex campo di concentramento per cercare protezione dai nazionalisti indonesiani che hanno fatto decine di migliaia di vittime nel periodo “Bersiap” (significato: tenersi pronti; nome dato al periodo caotico e violento seguito alla capitolazione giapponese; è la fase più cruda della rivoluzione nazionale indonesiana 1945-1949). A volte la storia è folle: i soldati che occuparono le Indie Orientali Olandesi dal 1942 al 1945 non poterono tornare in Giappone per mancanza di carburante e furono assunti come guardie per sorvegliare i campi giapponesi che erano stati trasformati in rifugi. La zia Ella ha negato le storie sul padre di Birney, ma la sorellastra Poppy lo ha avvertito: non lasciare mai che tuo padre vada  in Indonesia. Ha fatto cose molto brutte. Verrebbe immediatamente giustiziato. “E poi ho capito!” afferma Birney.

Ha cancellato le vanterie del padre sulle fidanzate e i viaggi in moto sulle Harley Davidsons. Ne ha lasciato meno della metà e l’ha riscritto almeno dieci volte, fino a quando non ha sentito che gli apparteneva e si è quasi identificato con suo padre. “In quel manoscritto caotico ho cercato di capire cosa ha reso mio padre quello che è”. Come, da scolaretto diciassettenne e indoeuropeo con un fascino per “la Regina e la Patria”, ha resistito ai giapponesi. Come, subito dopo la capitolazione giapponese, ha fatto da portavoce ai liberatori inglesi, dopo che gli olandesi hanno cercato di ristabilire la loro autorità sulla colonia. Come, durante le “Azioni di Polizia”, la guerra coloniale scoppiata nelle Indie Orientali Olandesi nel 1946, si è trasformato da interprete in uno spietato interrogatore e assassino sotto la bandiera della Marina olandese. E come si è infine unito a un piccolo gruppo di milizia con i suoi vecchi compagni di scuola che volevano trasformare l’Indonesia in uno Stato islamico. Non per una questione di principio, spiega Birney, ma solo per vendicarsi dei traditori, che prima avevano combattuto per i marines olandesi e poi per il TNI, l’esercito indonesiano di Sukarno che ha combattuto per l’indipendenza. Ha ucciso centinaia di persone. A poco a poco Birney si è reso conto che le storie che suo padre gli raccontava da bambino erano in gran parte vere.

Alfred Birney è un discendente della famiglia  olandese-scozzese Birnie di Deventer. Alla fine del diciannovesimo secolo George Birnie partì per Giava, dove creò una piantagione di tabacco e sposò la sua governante giavanese Rabyna. Ebbero otto figli e, sotto la guida del figlio David, il prospero impero familiare si espanse. Il nipote Willem Birnie, il nonno di Birney, fu il “perdente” della famiglia. Era avvocato, giocava d’azzardo ed era un cacciatore di donne, ma a differenza del nonno non sposò mai la moglie cinese con la quale ebbe cinque figli. Non riconobbe nemmeno i suoi figli, motivo per cui il padre di Birney e le sue zie sono considerati indo-cinesi.

“Le botte sono l’unico modo di crescere in questa famiglia. Mio padre non si è mai sentito riconosciuto”, dice Birney. Ha cambiato il suo nome da Birnie a Birney, ha creato una nuova discendenza. “Nel mio romanzo mio padre si chiama Nolan, e cambia il suo nome in Noland. La mia prozia Lies Birnie-Birnie, che fu deportata a Deventer dopo i campi di concentramento giapponesi, cercò di contattarmi quando già scrivevo libri. Non voleva parlare con mio padre, e quando glielo chiesi mi disse: “Non farlo. Non siamo noi, sono gli altri”.

Birney è Indo. Da parte di sua madre, una famiglia di calzolai del Brabante e caldi ricordi di vacanze a nuoto nelle paludi intorno a Helmond. Da parte del padre, una nonna cinese e un nonno indo-olandese con un quarto di sangue giavanese. “Il termine ‘Indo’ ha una lunga storia”, spiega Birney. Nel 1598 la prima nave olandese, di proprietà del mercante zelandese Cornelis de Houtman, salpò per quella che oggi si chiama Indonesia. Fin da subito è iniziato il commercio. Ma anche l’amore. “Non appena un colonizzatore mette piede a terra, nove mesi dopo nasce un bambino, dicono le femministe”, riferisce Birney. I figli degli uomini olandesi e delle donne giavanesi erano chiamati “meticci”, come i portoghesi che erano lì da cent’anni. Alle donne indigene non fu permesso di andare in Portogallo e così anche gli olandesi adottarono questa regola. Molti dei mercanti olandesi che hanno navigato verso casa passando per il pericoloso Capo di Buona Speranza sono annegati. I loro beni sono andati alle loro mogli giavanesi. Alcune di loro hanno preso un secondo, un terzo marito e sono diventate sempre più ricche, e hanno gestito la vita nei territori circostanti, intorno a Giacarta. I giovani uomini andavano in Oriente per sposare una donna anziana e ricca. E’ nata una cultura mista, che Multatuli nel suo famoso libro sulle Indie Orientali Olandesi Max Havelaar chiamava liplap . Intorno al 1900, quando fu coniato il nome “Indonesia”, uomini indonesiani bianchi andavano in giro vestiti con gli abiti tradizionali – sarong e slendang. Era iniziato però un nuovo tipo di ondata migratoria. Gli olandesi si stabilirono principalmente nelle zone costiere, costruirono ferrovie e fabbriche, e mandarono a chiamare le donne olandesi che, una volte giunte sull’isola, determinarono anche la moda. Non volevano imparare il malese, ma rimanere “fra di loro” e avevano un’impostazione molto più europea di quella dell’antica cultura delle Indie. Il governo olandese voleva elevare i giavanesi e così l’antica cultura mista si è persa. Per gli indoeuropei è stato introdotto il termine “Indo”. Gli Indo hanno avuto il permesso di venire nei Paesi Bassi per studiare. Il governo olandese non ha mai fondato università nelle Indie, come hanno fatto i francesi in Algeria e gli inglesi in India e non c’è mai stata una politica linguistica. In India l’inglese è la seconda lingua ufficiale e ogni anno c’è la famosa partita di cricket tra India e Inghilterra. Ma non esiste un rapporto speciale tra i Paesi Bassi e l’Indonesia. Niente olandese come seconda lingua, niente partita di calcio annuale. “Siamo una nazione commerciale”, dicono ancora gli olandesi. E con questo evitano tutto il loro grande capitolo coloniale. Mentre dal 1825, quando fu introdotto il sistema culturale, ogni contadino giavanese lavorava per gli olandesi. Birney descrive per la prima volta nella letteratura olandese i crimini dei marines olandesi negli anni 1946-1949. “Ci deve essere una reazione politica a tutto questo”, sostiene  Birney. Recentemente sono stati riservati nuovi fondi per la ricerca all’Istituto per la documentazione bellica, ma per Birney ci si sta impiegando troppo tempo. L’anno scorso è stato pubblicato il Roofstaat di Ewald Vanvugt, che contiene un capitolo sulle esecuzioni di massa nelle Indie Orientali Olandesi, e il De brandende kampongs van Generaal Spoor dello storico svizzero Rémy Limpach, che fornisce prove scientifiche delle torture e delle esecuzioni sommarie durante le cosiddette Azioni di polizia. In L’interprete di Giava si dà un volto all’estrema violenza: quello del padre di Alfred Birney. Questa è la letteratura. “La storia, la scienza inizia sempre con le storie”, dice Birney, “con la cultura orale o visiva. Il mio libro è un romanzo, ma è vero”. La violenza di suo padre non si è mai placata. Nel 1950 fuggì nei Paesi Bassi con gli ultimi marines e sposò una delle sue amiche di penna; nel romanzo è chiamata “cicciona”.

C’era sempre aggressività: sua moglie, i suoi figli dovevano soffrire. Solo la sorella più giovane, di soli quattro anni, quando tutti i bambini furono sistemati in collegio fu fuori pericolo. Quando ha letto il romanzo L’interprete di Giava ha pianto per una settimana.

“Questo libro mi ha liberato”, dice Birney. “Posso farvi un esempio? Non ho mai osato dormire dando le spalle alla porta. Sempre a tenere d’occhio la porta aperta! Solo ora che ho 65 anni ho il coraggio di farlo”. Birney vive e scrive ancora durante la notte. “Io sono un nightrider. C’è la paura nel profondo che dice: resta sveglio finché non sentirai cantare gli uccelli. Mio fratello gemello ha un ritmo giorno e notte ordinario, ma soffre di incubi. È così coraggioso da affrontare i suoi incubi, io sono così codardo da evitarli”.

Aveva forse il timore di nutrire lui stesso la rabbia che guidava il padre? “No, sono co-genitore di un ragazzo che ora ha 24 anni e studia chitarra flamenco a Rotterdam. Sono sempre stato gentile con lui. Quando andavo a riprenderlo sulla spiaggia, giocavo insieme a tutti i bambini mentre le madri prendevano il sole. Una volta sola ho colpito lui e la madre. Ero appena diventato adulto quando mi guardai allo specchio e mi promisi che non avrei mai alzato le mani contro un bambino o una donna. Per settimane, per mesi, mi sono sentito in colpa per aver infranto la promessa, ma loro mi avevano perdonato già da tempo. Sono rigido con me stesso”.

“Tuo padre può picchiarti per tutta la vita, ma in ogni caso ti tocca.

Sono sempre esistito per lui. Lui ha visto qualcosa in me. E mi ha regalato una penna, perché potessi diventare scrittore”.

Il tema del suo prossimo romanzo non è la storia indonesiana, il colonialismo o la guerra. Forse l’amore, come nel suo romanzo Sonatine voor zes vrouwen del 1996. Non lo sa ancora.

“Oggi i lettori, i recensori di libri, i giornalisti sono più aperti. Sono cresciuti in un paese dove ‘essere diversi’ non è una follia. Puoi mostrare di essere omosessuale, vestirti come vuoi, essere turco o surinamese. L’Olanda è finalmente pronta per Alfred Birney? Birney ridacchia. “Sì, puoi scriverlo!”

 

Traduzione dell’intervista di Maria Vlaar pubblicata sul quotidiano belga De Standaard (5 maggio 2017)

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