Hella Haasse – L’anello della chiave

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[Foto: Literaturmuseum e Iperborea]

Copertina Edizione Iperborea

Copertina Edizione Iperborea

L’anello della chiave (Sleuteloog, 2002) è il terzo romanzo “indonesiano” di Hella Haasse, in cui l’autrice affronta ancora una volta la problematica che l’ha accompagnata per tutta la vita, la ricerca di una risposta alle seguenti domande: è una straniera nel paese in cui è nata, le Indie Olandesi? La “colpa collettiva” che gli olandesi devono assumersi dopo secoli di razzismo, sfruttamento coloniale e conquiste riguarda anche lei? La scrittrice ama perdutamente un paese che ormai non esiste più. Con il passare del tempo non può più mantenere una visione di ingenuità. Però non si può neanche parlare di colpa solo perché lei è una bianca, una “totok” (termine che veniva utilizzato per indicare gli olandesi “puri”, “di razza”, nuovi arrivati e senza esperienza delle Indie). Questo eterno conflitto, già esplorato in L’amico perduto, ritorna in quest’altro romanzo della Haasse, ma in modo ancora più profondo.

L’anello della chiave non è affatto un romanzo dominato dall’ingenuità. La protagonista è Herma Warner, nata e cresciuta nelle Indie Olandesi in una famiglia olandese. Tema cardine del romanzo è sempre l’amicizia, questa volta al femminile. Herma Warner è una storica olandese ormai anziana che viene “costretta” a frugare tra i suoi ricordi da un giornalista, ricordi che da tempo aveva deciso di chiudere a chiave in un pesante forziere di ebano (sia in senso figurato, sia letteralmente). La chiave di questo baule, dal bellissimo anello lavorato con motivi arabi, le risulta però introvabile. Inizia allora un viaggio nelle memorie della sua infanzia, dell’adolescenza in una “Giava magica” e soprattutto della sua amicizia con Mila Wychinska, figura affascinante e controversa nel mondo degli attivisti dei diritti umani nel Sud-Est asiatico che ha spinto Bart Moorland, il giornalista in questione, a contattare Herma. “Una sua coetanea, di origine olandese: l’ha conosciuta? Basta quel nome perché l’onda dei ricordi travolga le barriere che Herma si è costruita nei suoi ordinati studi di storica dell’arte e nella quiete della casa di famiglia dove vive ritirata. Perché Mila Wychinska non è altri che Dee Meyers, l’amica della giovinezza a Batavia, uno dei nomi che aveva adottato, rinunciando a quello della sua nobile famiglia, nella sua continua ricerca di un’identità. […] A poco a poco riaffiora la storia di un’amicizia e di un amore in cui si riflette la fine di un’epoca e di un mondo, il tormentato passaggio, nelle Indie Olandesi, dal colonialismo alle lotte d’indipendenza, fino alla nascita della Repubblica Indonesiana. La crisi d’identità, i rapporti irrisolti tra oriente e occidente, il travagliato formarsi di una nuova coscienza in chi si trova sui difficili crinali della storia, ma anche, come sempre nella Haasse, l’impossibilità di conoscere a fondo gli altri e l’ambiguità della memoria, gli infiniti labirinti in cui si nasconde la verità, come nel misterioso arabesco che orna l’anello della chiave smarrita.” (Iperborea)

 

Commento alla lettura

Chiara Corbella

 

Come durante la lettura di L’amico perduto, ho trovato questo romanzo della Haasse incredibilmente affascinante. Si tratta di una storia all’interno della Storia, un viaggio tra i ricordi di Herma che porta anche a conoscere momenti fondamentali della storia indonesiana. Ancora una volta sembra che la vera protagonista del romanzo non sia l’io-narrante, ma l’amica affascinante e misteriosa Dee Meyers o Mila Wychinska. È il motivo per cui Herma ha deciso di seppellire tutti i ricordi della sua vita nelle Indie olandesi nei profondi meandri della sua memoria. Ed è anche il motivo per cui è costretta a recuperarli, a porsi nuovamente domande che però rimangono prive di una risposta. Di nuovo un’amicizia apparentemente grande (e leggendo il romanzo scoprirete perché) viene spezzata dalle differenze tra le due ragazze. Herma ha la pelle bianca, i capelli biondi, gli occhi azzurri e nonostante la sua anima non coincida con questo aspetto “pulito, perfetto”, rappresenta la perfetta “totok”. Dee viene invece da una famiglia che ha antenati francesi e olandesi, ma anche cinesi e indonesiani e ha un aspetto più esotico, che le conferisce una bellezza particolare e affascinante. Nonostante alla sua famiglia, in particolare a sua nonna, piaccia mantenere le parvenze di un albero genealogico “puro”, Dee si riconosce come belanda indo, indo-olandese. Allo stesso tempo considera Herma una bianca con una vita fatta di privilegi e apparenze, che non potrà mai capirla (anche se le loro vite sono molto simili). Solo dopo tanto tempo Herma scopre, attraverso una specie di diario dell’amica arrivato a lei in circostanze particolari, quanto l’ostilità nei suoi confronti fosse profonda. 

 

“Lo shock più forte fu apprendere che Dee a volte arrivava a odiarmi, non per qualcosa che dicevo o facevo, ma per quello che a quanto pareva rappresentavo ai suoi occhi, qualcuno in cui non riuscivo a riconoscermi.”

 

Possiamo percepire questo profondo conflitto durante l’intero romanzo. Lentamente vengono alla luce ricordi di momenti felici e spensierati, ma anche dolorosi e la triste verità che Herma non ha mai conosciuto veramente la sua “cara amica”. Ancora più devastante per la protagonista è scoprire che anche suo marito ha avuto una vita altrettanto misteriosa, fatta di segreti e bugie. 

Il modo in cui la Haasse riesce ad intrecciare il filo del racconto con quello dei ricordi e quello della storia indonesiana è incredibile. Ho inoltre apprezzato molto il modo preciso dell’autrice di descrivere gli ambienti, in particolare i giardini e le piante, che mi ha permesso di calarmi ancora di più nella storia e di immaginarmi ogni scena “a colori”.

Ho trovato molto interessante questa osservazione fatta dal traduttore Franco Paris nella postfazione: la conclusione a cui arriva Herma nella riflessione sull’amica Dee è la stessa a cui giunge il protagonista de L’amico perduto (o Il lago degli spiriti) a proposito dell’amico Urug, incomprensibile e misterioso come il lago Telaga Hideung. “Sotto la superficie c’è sempre stato tra noi un elemento che ci univa, indefinibile, che si sottrae a ogni tentativo di spiegazione o di analisi”. E con le parole di Franco Paris “La superficie continua a fuorviare, lo scandaglio è incessante, la ricerca continua.”

[spoiler alert]

Il finale del romanzo è stato veramente sorprendente e inaspettato e ha reso la storia ancora più intrigante: alla fine il baule viene aperto, ma si rivela vuoto. Sull’anello della chiave vi è un’iscrizione araba che dice “Tutto ciò che hai visto o sentito un giorno, tutto ciò che hai creduto di sapere non è più quello ma altro”.

La verità non può essere più accertata. Cambia continuamente e alcuni sentimenti dolorosi non andranno mai via: Herma dovrà conviverci. Si tratta dell’ultimo romanzo della Haasse, ma lei non lo sa. L’anello della chiave può essere letto come un seguito o una risposta a L’amico perduto. Senza averlo programmato, l’autrice conclude il suo lavoro di scrittura in modo circolare, una curva elegante che torna alla fonte. (Literatuurmuseum)

Consiglio vivamente la lettura di questa autrice che per me è stata una scoperta davvero fantastica e di cui sicuramente leggerò altre opere.

 

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